PESCARA - Lo sviluppo dell’embrione umano è rimasto per moltissimo tempo un enigma
— nascosto com’era in seno al ventre materno. L’occasionale osservazione del
prodotto di un aborto spontaneo, la possibilità di un’autopsia o di una dissezione
anatomica, consentivano, a volte, di togliere qualche velo. Per l’insieme di queste e
altre ragioni, le teorie filosofiche e prescientifiche riguardanti la procreazione e la
gestazione [Ippocrate (460-377 a.C.), Aristotele (384-322 a.C.), Galeno (130-210), S.
Tommaso d’Aquino (1226-1274), ecc.] sono state formulate a partire da un sapere
minimale e approssimativo e sono rimaste sostanzialmente inalterate per molti
secoli — più influenzate dalle filosofie e teologie soggiacenti che dall’osservazione dei
fenomeni.
Con la scoperta del microscopio in Olanda nel 1590 e l’ideazione di nuove
tecniche strumentali, — che consentono di indagare e esplorare a fondo lo sviluppo
della vita prenatale, — si sono accumulate nel tempo delle conoscenze sempre più
precise e dettagliate, non solo sulle modalità e i meccanismi della formazione degli
embrioni (gli esperimenti, per es., dell’abbate Lazzaro Spallanzani nel XVIII secolo),
ma anche sulla loro possibile realizzazione artificiale in provetta (IVF: fecondazione in
vitro), attraverso diversi procedimenti di induzione della fecondazione dell’ovulo da
parte dello spermatozoo. L’embrione umano diveniva in tal modo meno enigmatico,
sempre più accessibile e, soprattutto, “a portata di mano” di svariati progetti e
protocolli di ricerca e sperimentazione biotecnologica e biomedica.
Come ogni pianta è stata un seme (ogni quercia una ghianda; ogni pino un pinolo),
così ogni essere umano è stato un embrione, — anche se in natura si riscontra un
alto spreco di embrioni umani che si generano in seno al ventre materno: mediamente
solo il 20% “vengono alla luce”, ossia, arrivano a termine del loro sviluppo iniziato al
momento della fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo. Ma anche a
prescindere dall’esito dello sviluppo embrionale, dal contesto e dalle condizioni in cui si
svolge (in “utero” o in “vitro”), si è sempre posto il problema di comprendere quale tipo
di rapporto e di responsabilità, come singoli e come società, abbiamo nei confronti dei
nostri embrioni, che in ogni caso sono pur sempre parte fondamentale e essenziale di
ogni vita umana e soprattutto della nostra biografia: ciascuno di noi è stato un
embrione. Questo problema, però, non si poneva finché l’embrione era nelle mani della
natura. Ora, invece, che è sempre di più nelle nostre mani e sotto il nostro potere, ci
troviamo nella situazione di dover giustificare i nostri atti nei suoi confronti.
2. Da diversi decenni, infatti, in seguito al crescente sviluppo di nuove tecnologie
riproduttive e biomediche, che non solo ci “assistono” nel continuare a concepire e
procreare “secondo natura”, ma ci consentono anche di “produrre” artificialmente in
laboratorio ovuli, embrioni, organismi geneticamente manipolati (OGM), — inclusa la
prospettiva della clonazione umana terapeutica e riproduttiva — si ripropone il
problema della loro natura e identità e, in termini giuridici, del loro “statuto”: “che
cos’è” e/o “chi è” l’embrione umano nelle diverse fasi del suo sviluppo? Si ricorre
infatti al termine “statuto”, — di valenza e origine prevalentemente socio-giuridica, —
per qualificare formalmente la rete di relazioni che si instaurano nei confronti dei nostri
embrioni.
Valorizzando l’etimo del termine (dal latino statutum, participio passato neutro
di statuēre), definire lo “statuto” dell’embrione umano significa “stabilire”
formalmente — di fronte a possibili abusi da parte di diverse istanze singole o gruppi
sociali e professionali interessati, ma anche nella prospettiva dell’aborto terapeutico o
procurato, — il tipo e grado di protezione da attribuirgli, e quindi formulare i
nostri diritti e doveri nei suoi confronti. Si tratta, in altri termini, di precisare i limiti del
nostro potere e, infine, determinare quali relazioni e atteggiamenti morali e pratici
adottare nelle svariate e crescenti circostanze (aborto procurato, fecondazione in vitro,
ecc.) in cui ci troviamo a disporre o ad avere letteralmente “tra le nostre mani” uno o
più embrioni umani.
Basti solo pensare ai problemi sollevati — e non ancora risolti — dalle
centinaia di migliaia di embrioni umani crioconservati, ossia congelati, che non
essendo più stati utilizzati, né avendo la prospettiva di esserlo, giacciono nei frigoriferi
dei laboratori di ricerca di tutto il mondo, lasciando ancora in sospeso e molto dibattuto
l’interrogativo di fondo sulla loro natura e sul loro possibile destino.
La formulazione di uno statuto dell’embrione umano, inoltre, diviene a maggior ragione
necessaria qualora si ritenesse — come di fatto è avvenuto e sta avvenendo in diversi
Paesi del mondo, — che la pratica della fecondazione in vitro, il ricorso alle diverse
tecnologie riproduttive e la stessa sperimentazione embriologica, dovessero essere
regolamentati per legge. Il riconoscimento di uno statuto etico, infatti, deve comunque
e sempre precedere il diritto e la conseguente regolamentazione giuridica (dalla
bioetica al biodiritto).
Se l’embrione umano non avesse effettivamente alcuna valenza o statuto etico, —
come sostengono alcuni biologi, embriologi, medici, filosofi, giuristi e politici,
relativamente, per es., ai primi stadi del suo sviluppo (i primi 14 giorni introdotti dalla
legislazione inglese) — non sarebbe necessario legiferare a suo riguardo. Ma se si pone
l’esigenza di legiferare, significa che in qualche modo gli riconosciamo dei diritti e
quindi un suo “statuto” da definire, con tutte le divergenze interpretative e
argomentative che, in seno alla comunità scientifica internazionale, connotano le
diverse posizioni e legislazioni in merito.
Un certo numero di embrioni umani, infatti, — al di là dell’alta percentuale di perdite
riscontrata prima dell’annidamento nella mucosa dell’utero materno, — pervengono in
ogni caso al termine del loro sviluppo e possono essere quindi considerati per lo meno
“essere umano in potenza” o “persona umana potenziale”, capaci, cioè di diventarlo,
nell’accezione comune e più diffusa del termine “potenzialità”. Anche perché, in
seguito alla fecondazione di un ovulo umano da parte di uno spermatozoo umano,
appare indiscutibilmente una nuova vita umana che, in quanto tale, — se tutto procede
regolarmente — non si svilupperà mai in qualcosa di diverso da un “essere umano”.
3. All’origine del contenzioso sulla natura e sullo “statuto” dell’embrione
umano, sul suo essere “chi” e/o “che cosa”, — relativamente alle diverse fasi del
suo sviluppo, — da diverso tempo sussistono delle divergenze culturali e
interpretative, che rendono difficile e, per ora, non ancora possibile la definizione o
formulazione di uno “statuto condiviso” dell’embrione, che consenta di avviare una
politica comune di regolamentazione della ricerca embriologica e del ricorso all’ampio e
crescente ventaglio di possibilità sperimentali e terapeutiche che si prospettano.
Alla base di queste divergenze, infatti, vi sono vari problemi e interrogativi,
ricorrenti e non ancora risolti, concernenti soprattutto [B] il senso e la pertinenza
del criterio della “potenzialità”, a cui abitualmente si ricorre nell’interpretazione e
spiegazione della natura propria o “intrinseca” dell’embrione umano, ma anche, [C] un
disinvolto e spesso acritico ricorso a nozioni scientifiche e a concetti filosofici e
antropologici, — già introdotti nei diversi Paesi in cui è in vigore una legislazione sulla
riproduzione assistita — diversamente utilizzati nel contenzioso bioetico internazionale.
[B] La potenzialità dell’embrione: “già” e “non ancora”
Il dibattito sulla pertinenza del criterio della potenzialità, sulla sua sensatezza,
sulle sue contraddizioni logiche e sull’opportunità o meno di ricorrervi nella
determinazione della natura e dello “statuto” dell’embrione umano, è stato più volte
sollevato tra gli altri da Emanuele Severino (*)
, in particolare nel 2004, nel contesto
della discussione allora in corso sulla legge per la procreazione assistita, che poneva,
tra molti altri, il problema dello statuto e della sorte degli embrioni soprannumerari. La
“potenzialità”, infatti, è uno tra i criteri più utilizzati nella valutazione della natura e
dello statuto dell’embrione umano, oltre ai continui aggiornamenti sugli sviluppi della
ricerca embriologica.
(*) Emanuele SEVERINO, Sull’embrione, Rizzoli, Milano, 2005]
1. In senso generale, per “potenzialità” di un’entità o di un organismo specifico si
intende una latente capacità di sviluppo — che Aristotele (384-322 a.C.), già alcuni
secoli prima di Gesù Cristo, denominava “potenza”, — ossia, una predisposizione e
capacità a divenire effettivamente qualcosa “in atto”. Essa può essere ulteriormente e
contestualmente distinta in capacità intrinseca (potenza passiva), o — nel caso di
un organismo vivente in sviluppo — “ontogenetica” (si diviene quello che si è), come,
per es., un seme o l’embrione umano, che sono rispettivamente una pianta e un essere
umano “in potenza”, in quanto possono divenirlo “in atto”; e in capacità estrinseca
o indotta (potenza attiva), quando, per es., uno scultore imprime ad un blocco di
marmo quella “forma” per cui diviene una statua, oppure, una forza induce un corpo a
spostarsi da un luogo ad un altro, per cui si dice che quel blocco di marmo “può”
diventare una statua e che quel corpo “può” muoversi.
Questo concetto di “potenzialità”, nell’interpretazione aristotelica di “potenza”,
quale intrinseca capacità di “divenire in atto”, — di assumere, cioè, quella
predeterminata “forma” o individualità specie-specifica (una ghianda diventa una
quercia e non un abete; un embrione umano diventa un “essere umano” e non un
“altro essere” o organismo vivente), — per secoli ha caratterizzato la riflessione e
la tradizione culturale occidentale e la stessa metodologia della ricerca tecnoscientifica, che spesso vi ricorre quando, per es., interpreta e descrive un determinato
stadio di sviluppo biologico quale “attuazione” o esito di uno precedente.
La nostra cultura e mentalità sono talmente impregnate e condizionate dal concetto di
“potenzialità” — retaggio della filosofia aristotelica e poi della teologia cristiana — che
difficilmente riusciamo a prescinderne, benché sia possibile dimostrare che la
ricerca biotecnologica e biomedica contemporanee, nella loro crescente e sempre più
efficiente capacità di intervenire e modificare direttamente la costituzione genetica
degli organismi viventi, ne abbiano di fatto e metodologicamente preso le distanze, in
maniera più o meno consapevole.
2. Sostenere che l’embrione umano “è” un essere umano “in potenza”
(nell’accezione aristotelica del concetto), implica pertanto che esso “può diventare”
un essere umano “in atto”. Il fatto che lo possa diventare, però, non significa che lo
diventi realmente, in quanto la sua “attuazione” non è ineludibile o necessaria e
dipende dal concorso di diversi fattori ambientali e ora pure artificialmente indotti.
L’embrione, infatti, “può” anche “non diventare” un essere pienamente umano,
come spesso succede. Basti solo pensare, all’enorme spreco di embrioni che avviene in
natura o agli embrioni umani prodotti “in vitro” e crioconservati nei laboratori di tutto il
mondo.
Inoltre, il fatto che “non lo diventi” non significa che “non lo sia” o “non possa
già essere” un essere umano fin dal momento del suo concepimento, — benché “in
potenza” e non ancora “in atto” (come sostiene Aristotele), — ma che, per diverse
ragioni o circostanze, non è pervenuto a termine del suo sviluppo, iniziato al
momento della fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo; come
diversamente ritengono, per es., non solo la Chiesa Cattolica, ma anche molti
scienziati, ambienti culturali non confessionali e movimenti o associazioni a “difesa
della vita umana nascente”.
A parere di Severino, — che in merito ricorre a delle espressioni molto forti (“follia”,
“assurdità”) — l’interpretazione aristotelica di “potenza” è una grandiosa e assurda
astrazione metafisica, logicamente contraddittoria e quindi non pertinente e
fuorviante come criterio di qualificazione della natura compiutamente umana
dell’embrione, fin dal primo istante del suo concepimento. Anche nella letteratura
bioetica internazionale essa viene a volte designata come “metafisica dello
zigote” (dell’embrione appena formato dall’unione dell’ovulo con lo spermatozoo).
3. Aristotele, infatti, ritiene che la “potenzialità”, quale capacità di “divenire in atto”,
sia una proprietà intrinseca, sostanziale anche nel senso etimologico del termine
“sostanza” (dal latino “substantia”: letteralmente, “ciò che sta sotto”). Essa esiste
quindi prima di esplicitarsi, diversamente non diverrebbe tale. Il passaggio dalla
“potenza” all’”atto”, in altri termini, è ontogenetico e non può esserlo
diversamente. Ma, — sempre secondo Severino, — Aristotele rileva anche che “ogni
potenza è insieme potenza di ambedue i contrari” (Metafisica, IX, 8) o degli
“opposti”. Ne conseguirebbe, allora, che l’embrione umano, oltre ad aver la capacità di
“diventare uomo”, ha insieme anche la capacità di “non diventarlo”. Esso è “in
potenza” tanto “uomo”, quanto “non uomo”; e chi è in potenza sia uomo che nonuomo, non può essere già un uomo, analogamente al colore rosso, che non può
essere insieme un colore rosso e non-rosso.
Nel concetto aristotelico di “potenza”, quindi, — in ragione della coesistenza di
entrambi gli “opposti”, — vi è una palese contraddizione logica (“già” e insieme
“non già”), che non può sussistere nella “cosa in sé” (l’embrione), in quanto l'ente non
è contraddittorio. La si può spiegare solo quale esito astratto e assurdo di
un’interpretazione duale della sua potenzialità. L’embrione umano, infatti, non può
“già essere” e, insieme, “non essere” quell’uomo che per principio invece è un ente
individuale e, in quanto tale, “in-contraddittorio”.
4. Paradossalmente, il concetto aristotelico di “potenza” conduce ad affermare
proprio il contrario di quanto abitualmente si sostiene, ossia, che l’embrione umano
“in potenza” non è e non può essere un “essere compiutamente umano” e che la
sua soppressione (per lo meno nei primissimi stadi del suo sviluppo) non può essere
assimilata a un omicidio. Inoltre, dal momento che la nostra società e la stessa Chiesa
cattolica ammettono in certe circostanze l'omicidio, — quando, ad esempio, i soldati
sono sacrificati per una guerra giusta o per il bene comune, — anche alcuni embrioni
potrebbero essere sacrificati per acconsentire, per es., gli sviluppi della ricerca
embriologica con finalità terapeutica, a sollievo e salvezza di molti sofferenti.
Considerare l’embrione umano “già uomo” in potenza, pertanto, non solo è
insensato e contraddittorio, — come conciliare, per es., l’essere già uomo, benché in
potenza, con la capacità di diventarlo, se lo è già? — ma anche fuorviante, in quanto
induce una precomprensione della natura dell’embrione non pertinente alla
progressiva complessità del suo sviluppo, quale emerge sempre di più dai risultati della
ricerca biotecnologica e biomedica in corso. L’ontologia soggiacente al concetto
aristotelico di “potenza”, infatti, sarebbe responsabile non solo della non umanità
dell'embrione, ma anche di tutti i paradossi e le aporie che conseguono dalle sue
premesse, come, per es., la liceità della sua eventuale soppressione. La natura
dell’embrione e lo stesso divenire del mondo devono essere quindi reinterpretati al di
fuori della categoria della «potenza» e la “difesa della vita nascente” andrebbe
condotta in un modo radicalmente diverso da quello che generalmente viene praticato
da ogni forma di umanesimo confessionale o laico che sia.
Questa tesi tuttavia, — su ammissione dello stesso Severino — è tutt’altro che
scontata e molti non la comprendono. Essa ha vaste implicazioni e conseguenze, e
richiede un impegno di riflessione non comune, — una mutazione in un certo
senso “genetica” della nostra mentalità, — poiché il pensiero filosofico greco è il
terreno in cui è cresciuta l'intera storia dell'Occidente, incluso il cristianesimo. Severino
sostiene, infatti, che è in atto una rivoluzione culturale epocale, che renderà
evidenti le contraddizioni logiche latenti nel nostro tradizionale e abituale modo di
pensare, agire e gestire il potere, e porterà ad una totale dissoluzione del sistema
di valori che ha governato e orientato la civiltà occidentale — e attraverso la
tecnoscienza il mondo intero — con tutte le assurdità, le violenze e le follie che ne sono
conseguite. Sarebbe la stessa filosofia dell'ultimo secolo e mezzo a mostrare che “lo
scavalcamento dei valori del passato è un processo inevitabile”, in quanto “il sacro e il
divino, concepiti come dimensione eterna che domina il divenire e la storia, sono
impossibili”. Il problema, pertanto, deve essere analizzato “al rallentatore” o, per
usare un’altra metafora, “con la moviola”.
5. Anche la Chiesa Cattolica è in diverso modo coinvolta e attraversata dalle
contraddizioni logiche conseguenti all’interpretazione aristotelica del concetto di
“potenzialità”, riscontrabile nell’ampia letteratura teologica in merito. La filosofia
aristotelico-scolastica medioevale, infatti, permane ancora a fondamento di
buona parte della propria riflessione teologica e dell’impianto dottrinale. Prevale una
assunzione e traduzione teologica della “potenzialità” aristotelica intesa non tanto
quale proprietà sostanziale intrinseca (potenza passiva), quanto invece estrinseca
(potenza attiva), infusa, cioè, direttamente da Dio, e designata prevalentemente come
“anima spirituale” dal Catechismo della Chiesa Cattolica (362-368) e “anima
razionale” da Tommaso d'Aquino.
A parere di Severino, però, nel sostenere la piena umanità dell’embrione la Chiesa si
allontana dalla filosofia di Tommaso d'Aquino. Per la dottrina cattolica, infatti, la
vita umana, intesa come “unità di anima e corpo”, inizia sin dal momento del
“concepimento” o alla “fecondazione”, quando lo spermatozoo si unisce all'ovulo,
come spiegano i biologi, — benché l’analogia sia impropria in ragione della diversa
referenzialità dei linguaggi (descrittivo quello scientifico; simbolico-evocativo quello
teologico). L'anima spirituale, tuttavia, non è prodotta dai genitori ma è “creata
direttamente da Dio”. Questo significa allora che Dio crea l'anima del nascituro sin
dal primo istante del suo concepimento, sin dal momento, cioè, in cui il principio
paterno (pronucleo maschile) e quello materno (pronucleo femminile) si uniscono.
Nella Summa contra Gentiles, invece, Tommaso sostiene che l’anima razionale è
infusa direttamente da Dio quando il corpo è già formato, assumendo
successivamente nel tempo prima la “forma” vegetativa, poi quella animale e infine la
“razionale” (dopo 40 giorni nei ragazzi e dopo 90 nelle ragazze), che viene infusa
dall’esterno (anima rationalis ab extrinseco immissa). Questo implica che il corpo
dell’uomo “si forma prima della creazione dell'anima” e siccome diventa “umano” solo
in seguito all’infusione dell’anima, prima di allora, “quando non ha ancora l'anima [...]
non è un corpo umano in atto” (II, 89). Con queste argomentazioni filosofiche, però,
Tommaso intendeva prima di tutto e soprattutto giustificare "razionalmente" la tesi
cristiana dell’immaterialità e immortalità dell'anima e quella secondo cui ogni essere
umano è singolarmente voluto da Dio.
6. I problemi, posti da Severino, del senso della “potenzialità” dell’embrione umano,
delle sue contraddizioni logiche e delle divergenze interpretative, hanno sollevato
numerosi interrogativi, che possiamo brevemente elencare, richiamando quelli più
ricorrenti e le relative posizioni nel dibattito internazionale in corso.
a) Gli embrioni umani sono “esseri umani” fin dal primo istante della loro
formazione, a prescindere dalla loro origine (in “utero” o in “vitro”), — come se già
tutto fosse iscritto nel loro genoma (DNA)? Oppure non lo sono ancora, ma lo
diventano, per il concorso di svariati elementi o fattori ambientali, che in diverso
modo condizionano l’attivazione delle “frequenze geniche” specie-specifiche e il loro
stesso sviluppo e destino? Questo spiegherebbe anche perché un’alta percentuale di
embrioni formati “in utero” non “vengono alla luce”: come è ampiamente documentato
dalla letteratura scientifica internazionale in merito, il 75% degli ovuli appena fecondati
si perdono prima di impiantarsi nella mucosa dell’utero; altri negli stadi di sviluppo
successivi.
b) La qualifica di “essere umano” è una proprietà intrinseca, costitutiva o — in
senso teologico — “infusa” nel “primo istante” o momento della formazione
dell’embrione (zigote)? Oppure, è l’esito di un processo (non necessariamente
continuo) di differenziamento cellulare, di organogenesi e crescente
complessificazione? Per cui, nei primissimi o anche successivi stadi del loro sviluppo,
possono essere considerati degli “ammassi o sistemi cellulari” in corso di accrescimento
e la sperimentazione sull’embrione umano sarebbe quindi consentita?
c) C’è una differenza “sostanziale” tra un embrione “naturalmente
generato” in seno al ventre materno, nell’ambito di un progetto genitoriale o meno, e
un embrione “artificialmente prodotto” in laboratorio in funzione della conoscenza
scientifica e della ricerca terapeutica?
7. La prima posizione — relativamente agli interrogativi evocati — reclama
una protezione incondizionata dell’embrione. La si giustifica con la potenzialità
della cellula fecondata a svilupparsi in individuo umano, ossia, con la continuità
biologica fra l’uovo fecondato e il potenziale futuro individuo. L’essere umano viene
definito in termini genetici (ricondotto, cioè, all’informazione genetica della
specie Homo sapiens sapiens) e, di conseguenza, una cellula con un corredo
cromosomico umano completo (diploide) va sempre trattata come un “essere umano”
quando possiede la potenzialità e si trova nelle condizioni di svilupparsi come tale.
In genere non si allude, o si prescinde dalle condizioni o dal contesto che
consentono il passaggio dalla “potenzialità” all’”atto”: il processo sarebbe
prevalentemente ontogenetico e solo conseguentemente epigenetico (in ragione della
gradualità e continuità dello sviluppo, e dell’emergenza progressiva delle funzionalità
fisiologiche e identitarie più complesse). L’embrione, cioè, non sarebbe altro che
l’espressione morfologica e temporale di una sola e medesima vita che comincia alla
fecondazione e continua fino alla morte, passando successivamente attraverso gli stadi
di uovo fecondato, di embrione, di feto, di neonato, di bambino, di adolescente, di
adulto e infine di persona anziana.
L’embrione, inoltre, non sarebbe solo umano in ragione del suo genoma speciespecifico. Lo sarebbe anche in virtù di un progetto genitoriale di procreazione,
d’inclusione, cioè, del nascituro, — anche prima del concepimento, — nell’immaginario
dei genitori e del suo riconoscimento giuridico come soggetto di diritto fin dal primo
istante della sua formazione, sotto riserva di nascita vitale.
8. La seconda posizione, invece, sostiene una protezione progressiva
dell’embrione e indica precisi stadi di demarcazione. In linea di principio si afferma la
protezione dell’embrione fin dall’inizio, ma si ritiene che essa diviene incondizionata
solo a partire dal momento dell’annidamento dell’uovo fecondato nella mucosa uterina
(circa 14 giorni dopo la fecondazione). Non si può infatti equiparare l’embrione, — così
com’è fin dal primo istante del suo sviluppo, — alla vita di un “essere umano” o di un
individuo adulto in senso pieno. Ma si può parlare di individuo umano in divenire solo in
presenza di condizioni extra-genetiche e ambientali che consentono lo sviluppo verso
l’uomo adulto esistente. Questo non sarebbe il caso per la maggior parte degli embrioni
che vengono prodotti e sprecati in abbondanza “secondo natura” o in numero limitato e
finalizzato “in vitro” e al di fuori dell’ambiente materno necessario per lo sviluppo
biologico.
Da questo punto di vista, nella fase precedente l’annidamento, la protezione
dell’embrione può anche entrare in conflitto con il dovere di avviare quelle
ricerche che perseguono la finalità terapeutica di lenire o evitare le sofferenze umane,
nella prevenzione di possibili anomalie genetiche e nella gestione della fase terminale
della vita umana. In vista di queste nobili finalità, però, si ritiene possibile un’eccezione
al principio della protezione incondizionata e una comparazione fra i beni
effettivamente perseguiti (moralità dei fini) e i mezzi utilizzati (moralità dei mezzi).
Coloro che sostengono, invece, una protezione incondizionata, ritengono non
ammissibile, se non illegittima, la comparazione fra il diritto alla vita dell’embrione e la
doverosa promozione della ricerca biomedica.
In un certo senso, come ha rilevato Emanuele Severino, la stessa Chiesa Cattolica,
— ispirandosi alla teologia di San Tommaso d'Aquino (1226-1274), — per moliti
secoli ha sostenuto la protezione progressiva dell'embrione, adottando la
dottrina dell’"animazione successiva", che ammette l'esistenza di stadi di demarcazione
nello sviluppo continuo dell'embrione, nei quali esso subisce dei "mutamenti
sostanziali", incominciando a essere un "vegetale", poi un "animale" e, infine, un
"uomo" dotato di "anima razionale" direttamente creata e infusa da Dio, solo dopo che
le strutture cerebrali abbiano raggiunto un sufficiente grado di complessità.
Anche Dante Alighieri (1265-1321), nel XXV canto del Purgatorio, — attraverso il
poeta latino Publio Papinio Stazio (45 circa – 96 circa) — fa riferimento alla stessa
dottrina tomista dello sviluppo umano —, per cui l'anima personale entra nel feto
quando «l'articolar del cerebro è perfetto». Solo a quel punto si forma «un'alma
sola/che vive e sente, e sé in sé rigira». (Purgatorio, XXV, 69 e 74-75).
9. Una terza posizione, infine, — minoritaria rispetto alle precedenti — sostiene
una piena libertà di ricerca sugli embrioni allo stadio iniziale, benché
diversamente condizionata nelle varie fasi del loro sviluppo. Si considera legittima la
ricerca sugli embrioni prima dell’annidamento, poiché in questa fase essi non
sarebbero ancora degli “esseri umani” in senso proprio. Non si comprende, tra
l’altro, per quale ragione uno scienziato non sarebbe autorizzato a praticare la
sperimentazione sugli embrioni umani, anche al prezzo di qualche loro sacrificio, dato
che la natura stessa procede ad un loro abbondante spreco. Dal punto di vista
teologico, inoltre, come pensare e conciliare il fatto che Dio crei delle persone fin dal
concepimento quando si riscontra che “almeno due uova fecondate su tre muoiono nel
corso delle prime sei settimane?” Che significato assume in queste circostanze la vita
come “dono di Dio”?
Riguardo a quest’ultima posizione, però, i dati della moderna embriologia sono
discordanti e, soprattutto, non pertinenti relativamente alla possibile attribuzione di
una valenza etica allo specifico stadio di sviluppo considerato. Non è infatti possibile
fondare e dedurre logicamente uno statuto normativo e giuridico da un’osservazione e
descrizione di una realtà biologica.
[C] Il ricorso a nozioni scientifiche e concetti filosofici e
antropologici
Il contenzioso sollevato da questi interrogativi — e dall’inconciliabilità delle
relative posizioni — non è ancora chiuso e non si riesce a dirimere ricorrendo a
criteri esclusivamente scientifici. Per pervenire ad una formulazione condivisa dello
statuto dell’embrione umano, — per stabilire cioè in che misura e entro quali limiti sia
soggetto di diritti e quindi di rispetto, — non basta infatti una corretta informazione
scientifica degli sviluppi della ricerca embriologica in corso, ma bisogna risalire alla
radice della contrapposizione tra le diverse concezioni e valutazioni.
1. All’origine delle divergenze interpretative, vi sono delle “precomprensioni”
filosofiche e antropologiche contrapposte, retaggio della cultura di appartenenza e
dell’educazione ricevuta. Spesso si riscontra anche una non chiara consapevolezza dei
limiti conoscitivi (epistemologici) e della funzione propria dei diversi saperi implicati, in
ragione dell’interdisciplinarietà dei complessi problemi sollevati e del loro impatto
sociale nella gestione della fase iniziale della vita umana.
In questa fase è pertanto opportuno chiarire previamente la differenza tra la
funzione operativamente descrittiva del metodo e linguaggio scientifico e la valenza
propriamente prescrittiva e orientativa della riflessione e del linguaggio etico. In tal
modo, una aggiornata descrizione di quello che realmente avviene a livello biologico, al
momento della fecondazione, dello sviluppo dell’embrione e poi del feto, ci consente di
interrogarci sulla pertinenza o meno del dato scientifico nella determinazione del suo
possibile e proponibile statuto morale e conseguente tutela giuridica.
Nell’articolato e controverso dibattito in atto vi è infatti un comune ricorso a
diverse nozioni scientifiche e concetti filosofici e antropologici, — quali,
“riproduzione, concepimento e procreazione”; “essere umano, individuo e persona”, —
che, senza un’adeguata e previa chiarificazione semantica e contestuale, non
contribuiscono alla ricerca di una formulazione dello statuto dell’embrione umano
fondamentalmente condivisa, a maggior ragione in una società sempre più plurale,
caratterizzata da una coesistenza di molteplici etnie, culture e confessioni religiose, dai
valori spesso non convergenti. L’etica, in relazione ai valori perseguiti, è orientativa e
prescrittiva dell’agire umano. La scienza, invece, è descrittiva in funzione di un
possibile e ammissibile controllo e dominio della realtà indagata. Ma è l’etica a valutare
l’ammissibilità o meno del protocollo di ricerca e a definirne le condizioni di attuazione.
2. “Riproduzione”, per es., è una nozione scientifica e descrittiva: tutti gli
organismi viventi si riproducono (non c’è vita senza riproduzione); mentre,
“concepimento” (l’atto del “concepire”) è un concetto antropologico e nella nostra
lingua concepire vuol dire sia procreare, sia pensare. Solo l’uomo, infatti, “concepisce”,
può, cioè, riflettere e decidere se riprodursi o meno — anche se la riproduzione in
senso biologico può avvenire accidentalmente, a sua insaputa.
Il concepimento, inoltre, — proprio in ragione della sua valenza antropologica, —
può essere descritto ricorrendo a diversi linguaggi: quello del poeta che ne
decanta il mistero per comunicare la sua meraviglia; quello del teologo che vi coglie
un segno di Dio e interpreta la vita come un dono; quello dell’agnostico che
attribuisce agli individui o alla società un diritto di controllare la vita; quello dello
psicanalista che richiama la dimensione simbolica della riproduzione umana: un
bambino si concepisce prima nella testa; quello del giurista o dell’etnologo che vi
colgono la manifestazione di una delle strutture più fondamentali della società, ossia, la
struttura di parentela; quello, infine, dello scienziato che descrive il meccanismo della
riproduzione biologica in termini di incontro di gameti e di conseguente sviluppo
embriologico.
Nessuno di questi linguaggi, però, può pretendere all’esaustività, né
all’obiettività incondizionata di una realtà, come quella dell’embrione, che si rivela
contestualmente sempre più complessa. E il ruolo del filosofo non è tanto quello di
elaborare un discorso supplementare a questi linguaggi, ma di provare ad articolarli
tra di loro, avendo cura di rispettarne la valenza semantica.
La “procreazione”, invece, è un termine a prevalente valenza filosofica e
teologica; naturalisticamente e filosoficamente, esso evoca la partecipazione ad una
possibile creatività aleatoria (casuale) o finalistica (teleologica) della natura;
teologicamente, indica la partecipazione responsabile (“procreazione responsabile”) a
un possibile “disegno divino” trascendente e/o “rivelato”. In tal senso, la procreazione
non è solamente una “operazione” fisica, poiché il suo “esito” è una “persona”, ossia un
“essere dotato e capace di libertà e responsabilità”.
In effetti, il verbo “nascere” (dal latino: nasci), rimanda alla nozione di “natura”,
(participio futuro del verbo nasci), che letteralmente significa “ciò che sta per nascere”.
La parola “nascere”, pertanto, non rinvierebbe banalmente alla nascita, — nel
senso fattuale del passaggio dall’intra all’extra-uterino, — ma implicherebbe che i diritti
della personalità, ossia, l’uguaglianza e la libertà che ogni essere umano possiede,
siano immanenti (dati per natura) e solo in seguito giuridicamente formalizzati e
istituiti.
3. Ma anche il frequente e spesso disinvolto ricorso a concetti filosofici e
antropologici, diversamente utilizzati nel contenzioso bioetico internazionale, quali
“essere umano”, “individuo” e “persona”, è suscettibile di generare confusione circa
la loro pertinenza o meno nel designare determinati stadi dello sviluppo embrionale e
condizionare quindi il perseguimento di una formulazione etico-giuridica condivisa dello
statuto dell’embrione umano.
La qualifica di “essere umano”, per es., — in particolare l’attribuzione di “umano”,
non riduttivamente riconducibile ad una sequenza specie-specifica di geni presenti nel
genoma di Homo sapiens sapiens, — si rivelerebbe nell’esercizio della consapevolezza
di sé e della libertà personale che, in un contesto di relazionalità simbolica propria
di ogni cultura, trascendono in quanto tali la corporeità, pur sempre esprimendosi
attraverso di essa. Secondo questa accezione, l’essere umano non ha semplicemente
un corpo, ma “è” il suo stesso corpo. Il biblico “soffio nelle narici” (Genesi 2,7) ne è
in qualche modo un’evocazione simbolica.
In che senso, allora, è pertinente e convincente, — anche in relazione alla
sensibilità dell’uomo contemporaneo, allo stesso immaginario collettivo e in
considerazione della dimensione microscopica dell’entità generata o prodotta dalla
fecondazione (lo zigote è una cellula più piccola della punta di uno spillo), — attribuire
all’embrione appena generato o “prodotto” in laboratorio (di fatto ad una singola
cellula), la proprietà intrinseca di “essere umano”, secondo una concezione
filosofica da tempo accantonata — a ragione o a torto — come metafisica dello zigote?
I primissimi stadi di sviluppo dell’embrione, per es., non hanno l’aspetto di un
essere umano. La sua stessa morfologia non consente neppure di distinguerlo da
quello di altre specie di mammiferi. Ma anche altre caratteristiche essenziali, quali
unità, individualità, relazionalità al corpo materno e irreversibilità dello sviluppo, non
sono ancora garantite. Del resto, il fatto o il pregiudizio morfologico secondo cui
l’essere vivente si individualizza solo esibendo una forma riconoscibile a occhio nudo, e
l’articolazione o meno tra l’individualità e la personalità dell’embrione, rientrano tra i
problemi più controversi e dibattuti nel contenzioso in corso sullo statuto dell’embrione
umano.
Basti solo pensare che — relativamente all’individualità — un embrione iniziale
può dividersi in due gemelli (divisione gemellare monozigotica) fino a circa
quattordici giorni dopo la fecondazione, lasciando aperto l’interrogativo di quale delle
due cellule figlie identiche è la persona originaria; e — relativamente all’identità — due
o più embrioni iniziali possono fondersi in uno solo per formare un unico embrione
chimerico vitale (fusione chimerica); in questo caso l’embrione chimerico posto in
essere non ha certo incominciato a esistere allo stadio di zigote. Inoltre, le singole
cellule che compongono l’embrione nelle fasi successive del suo sviluppo (stadio
di morula e di blastula) conservano la toti-potenzialità: hanno, cioè, la possibilità
(anche se per ora ancora teorica) di svilupparsi a loro volta — se poste in un ambiente
adeguato, — in un individuo singolo e autonomo.
4. A maggiore ragione il problema si pone per quello che concerne una
possibile soggettività giuridica “personale” [identità ontologica], oltre che
“individuale” [individualità ontologica]. Non vi è infatti “individuo umano” senza
“individualità ontologica” (somatica), né “persona umana” senza “identità ontologica”
(soggettiva), che si conservano tali e quali — ossia uguali a sé stessi — negli stadi
successivi di uno sviluppo continuo, dall’embrione iniziale al feto, all’infante e bambino,
fino all’adulto.
Per questo pensiamo che l’adulto, in quanto individualità ontologica, è
identico al bambino, all’infante e perfino al feto prima della nascita. Ogni individuo
umano adulto, infatti, è stato un tempo un feto, un bambino e un adolescente, e le
espressioni «individuo umano» e «persona umana» nel corso di uno sviluppo continuo
dell’embrione sono praticamente intercambiabili. Anche se il termine “persona”, sia
in senso etimologico, sia in senso filosofico, è più problematico e meno immediato
rispetto a quello di “individuo”, che vuol dire “indivisibile” (indivisum in sé), ossia,
dotato di unità intrinseca (ontologica) che lo rende unico e differente da tutti gli altri
individui della specie biologica di appartenenza.
La sua individualità umana però non è acquisita fin dalla fecondazione come uno
stato o una struttura permanente, ma deve essere pensata come un processo
cronologico di individuazione attraverso i cambiamenti delle strutture emergenti nel
corso dei diversi stadi di sviluppo dell’embrione. E questo perché l’individualità
biologica si costruisce nel tempo e ci consente di riconoscere come umane le differenti
strutture nelle quali essa si consegna. L’esame dell’individualità dell’embrione, infatti,
esige, per quanto possibile, un’astrazione dalla contingenza e dalla storicità.
5. Il termine “persona”, invece, è più complesso, non tanto in senso
etimologico, quanto semmai filosofico ed etico. In senso etimologico esso deriva
dal verbo latino “personare”, per significare l’attore che, nel recitare un ruolo specifico,
risuonava la sua voce (personobat) attraverso il foro della maschera lignea che
indossava. Questo significato etimologico, — in riferimento al ruolo assunto dall’attore,
— farebbe quasi pensare alla “persona” come ad una attribuzione estrinseca o
teologicamente “infusa”.
In sede di riflessione filosofica, si va dalla classica definizione di Severino
Boezio (477-524), che concepisce la “persona” come “sostanza individuale di natura
razionale” (rationalis naturae individua substantia), ossia, un individuo reale dotato di
una serie di capacità, attività e funzioni — che si possono senza dubbio considerare
come manifestazioni della sua razionalità, — ad una concezione non più intrinseca
(metafisica), ma funzionale, elaborata da alcuni autori moderni. Il termine “persona”,
cioè, non indicherebbe una sostanza (come, per es., la sostanza pensante o “res
cogitans” di Cartesio), ma una qualità. Essa non sarebbe altro che un concetto,
definito da un certo insieme di proprietà o funzioni, — quali la capacità di riflessione, di
autocoscienza, di autodeterminazione, di comunicazione intersoggettiva, di
rappresentazione simbolica, — che gradualmente emergono in stadi successivi dello
sviluppo dell’embrione, nel corso del processo di individuazione e di organogenesi, del
costituirsi, cioè, di quelle strutture anatomiche che ne consentono l’esercizio
delle funzionalità proprie.
Un concetto di “persona”, in altre parole, inteso come capacità e fondamento di
ogni relazione, che si stabilisce non solo con gli altri individui umani, ma anche con sé
stessi, come coscienza di sé e come identità ontologica che, — anche secondo i più
recenti indirizzi della genetica, — permane tale, attraverso l’informazione che proviene
dall’ambiente e tutti i mutamenti accidentali, tanto genetici quanto somatici. Con la
nozione di “persona”, infatti, entriamo nel dominio dei valori e quindi nell’ambito
dell’atteggiamento valutativo di un osservatore.
Due concezioni di “persona”, pertanto, contrapposte e divergenti (metafisica la
prima, strutturale-funzionale la seconda).
6. Ma anche a prescindere dalle questioni interpretative dei più ricorrenti termini
del dibattito in corso, l’apparente continuità dello sviluppo embrionale, — proprio in
ragione di una possibile divisione gemellare, fusione chimerica e del concorso di fattori
e informazioni extra-genetiche — non basta da sola a stabilire la continuità ontologica
di un unico soggetto. La ricerca embriologica, inoltre, dispone oggi di raffinate e
ben sperimentate tecniche in grado — analogamente al “ripristino” o al riavvio del
sistema operativo di un PC — di indurre una singola cellula somatica a
“riprogrammare” il proprio sviluppo con un’individualità e/o identità, in un certo qual
senso “ricondizionata o rigenerata”, sia mediante opportune modifiche genetiche
transienti (cellule pluripotenti indotte) sia tramite trasferimento del suo nucleo in un
ovulo enucleato (clonazione).
Quando trasferiamo il nucleo di una cellula adulta in un uovo enucleato non si
forma un embrione vero, ma uno pseudo-embrione, o per usare un termine più
appropriato, uno «pseudo-zigote». Lo zigote, infatti, è la cellula che si forma dalla
fusione di un ovulo con uno spermatozoo; pertanto la clonazione non dà origine a uno
zigote, bensì solo a qualcosa che sembra, ma non è, uno zigote. Questo cosiddetto
«pseudo-zigote», però, è di fatto capace di formare un organismo adulto, seppure con
una percentuale ancora molto bassa di successo, com’è in diverso modo avvenuto
nel caso della clonazione della pecora Dolly e più recentemente dei primi due macachi.
Per l’insieme di tali ragioni e situazioni — riscontrate dalla ricerca embriologica già da
qualche decennio e ripetutamente appurate nel corso dello sviluppo “in utero” e
“in vitro” — nel dibattito internazionale prevale l’opinione che l’embrione
appena concepito, o “prodotto” in laboratorio, non possa essere
appropriatamente ritenuto un “essere umano”, né tantomeno una “persona”,
dal momento che permangono ancora incerte e precarie quelle caratteristiche e
proprietà che lo renderebbero inequivocabilmente tale. L’ovulo umano fecondato
(zigote), infatti, benché dotato — come tutti gli organismi viventi individuali — di una
specifica struttura eterogenea e di parti, che con le loro interazioni contribuiscono al
suo metabolismo e alla sua crescita, non sarebbe propriamente o ancora un “individuo
umano”, ma una “cellula individuale vivente” che, in relazione al contesto in cui si trova
situata e alle possibili interazioni tra l’innato e l’acquisito, può andare incontro a diversi
destini.
7. La maggioranza dei biologi, degli embriologi e dei rapporti delle Commissioni di
Etica Biomedica internazionali colloca infatti l’individuazione del sorgere di una vita
autonoma (individualità ontologica) al di là del momento della fecondazione, anche
se in termini non unanimi relativamente allo specifico stadio di sviluppo. La non
unanimità, però, è a sua volta l’esito di divergenti concezioni o precomprensioni
filosofiche che soggiacciono alla pluralità delle interpretazioni in merito.
Lo stesso biodiritto, d’altronde, si trova nelle condizioni di doversi avvalere di un
modo non sempre condiviso d’intendere la vita e la nascita dell’individualità, a
meno che non sussistano delle motivazioni per ricorrere ad una procedura autoritaria,
qualora, per es., si prospettassero delle conseguenze tali da sollevare un conflitto
di valori difficile da gestire e conciliare (etica delle conseguenze). Ma singole e rigide
posizioni morali non possono essere poste a fondamento di un ordinamento giuridico
statale plurale, in cui convivono etnie, culture e confessioni religiose dai valori spesso
non convergenti. Le norme giuridiche, infatti, devono essere configurate in modo tale
da consentire decisioni conformi alle diverse convinzioni etiche, ossia, all'effettivo
stato della coscienza morale della società entro cui vengono emanate, a prescindere
dalle contingenti dinamiche politiche che possono aver presieduto alla loro democratica
approvazione. A maggior ragione se prevale l’opinione che i conflitti etici possono
trovare una soluzione nell'ordinamento giuridico vigente.
Quando però il confronto delle ragioni non perviene a un consenso, e le normative
adottate rischiano di tradursi in limitazioni della libertà dei cittadini, è allora
moralmente corretto fare appello al principio dell’obiezione di coscienza, in base
al quale poter discernere quali limitazioni si possono considerare ammissibili e quali,
invece, imposte.
[D] Rilievi conclusivi: oltre la contrapposizione
“ontogenesi/epigenesi”
Indubbiamente, se la questione della natura, dell’identità e del possibile
“statuto” dell’embrione umano dovessero rimanere problematici e dall’incerta
definizione in tutte le circostanze e fasi del suo sviluppo, e non fosse possibile, —
nonostante i tentativi fatti, — di pervenire ad una formulazione etico-giuridica
condivisa, potrebbe prevalere il tradizionale e discrezionale criterio prudenziale di
“sospensione del giudizio etico”. Un criterio, questo, retaggio di una secolare e
consolidata tradizione di filosofia morale, e ben evocato dall’allegoria del cacciatore
che, nell’incertezza di trovarsi di fronte alla preda, — in ragione del fruscio dietro al
cespuglio, — non preme il grilletto, per non incorrere nel rischio di sopprimere un
“essere umano”.
1. Questa è pure una fra le varie ragioni per cui la Chiesa Cattolica, di fronte al
progredire delle ricerche e al persistere di un contenzioso internazionale non ancora
risolto, — memore anche della sua passata intransigenza e delle conseguenze del “caso
Galilei” — non si è mai espressamente impegnata ad affermare che l’embrione è
un “essere umano” fin dal primo istante del suo concepimento, ma a sostenere che
deve essere considerato e trattato “come se fosse” tale, con le relative
implicazioni e conseguenze, rimanendo aperta ad ulteriori possibili valutazioni e
specificazioni in seguito ad eventuali significativi progressi delle ricerche biomediche in
merito.
“Sotto il profilo dell’obbligo morale, — ribadisce, per es., Giovanni Paolo II (Lettera
Enciclica Evangelium vitae, 60) — basterebbe la sola probabilità di trovarci di fronte
a una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a
sopprimere l’embrione umano”. Proprio per questo motivo nel 1965 lo stesso Concilio
Vaticano II (cfr. Costituzione apostolica Gaudium et spes, n. 51) aveva già chiaramente
espresso che la vita umana deve essere protetta con la massima cura a partire
“dal momento del suo concepimento”. In diversi altri documenti, però, da un lato,
si sottolinea la necessità di riflettere sul concetto di persona, e dall’altro si afferma che
nell’uso di questo termine il Magistero «non si è espressamente impegnato su
un’affermazione d’indole filosofica» (cfr. l’Istruzione “Donum Vitae”, I.1).
L’essere trattato “come se fosse tale”, però, è solo un atteggiamento etico
prudenziale in relazione alla specifica circostanza di trovarci di fronte ad un possibile
“essere umano” (etica delle circostanze) e alle probabili conseguenze. La valutazione,
cioè, è diversamente condizionata dal variare del contesto e delle situazioni. Il
fatto che, per es., uno studente di medicina sia anche un “medico potenziale”, - sia,
cioè, capace di diventarlo, - non implica che debba essere trattato come se lo fosse
realmente e gli vengano riconosciuti i diritti che derivano dal possesso attuale e
dall’esercizio di quella professione.
2. Come abbiamo sopra rilevato, — richiamando la riflessione di Emanuele Severino, —
anche il ricorrente concetto di “potenzialità” permane molto discusso nel dibattito
internazionale sullo “statuto dell’embrione umano”. Per alcuni filosofi, infatti, la
potenzialità non riguarderebbe tanto l’essere in sé, una predisposizione intrinseca
(potenza passiva, ontogenetica), quanto i modi d’essere o le disposizioni di un essere
(la capacità, per esempio, di divenire medico, pianista o pittore, ecc.), e non avrebbe
neppure senso affermare che l’embrione umano possiede la coscienza allo stato
potenziale latente, non essendo emerse ancora le strutture biologiche che ne
consentono l’esercizio.
L’affermare, inoltre, che l’embrione è “persona”, sebbene “in potenza”, non deve far
dimenticare che le nostre abitudini linguistiche ci indicano che "persone" (pur nella
pluralità delle interpretazioni filosofiche e antropologiche) sono soltanto gli individui
capaci di stati mentali coscienti e intenzionali (speranze, desideri, paure,
angosce) e, forse, perfino di autocoscienza. Non chiamiamo "persone" neppure delle
entità molto più evolute degli embrioni, come i nostri cani domestici o le scimmie —
pur provando molto affetto e attenzione per queste creature.
3. Di natura contestualmente ben diversa, invece, è l’esortazione e l’impegno
ad una “procreazione responsabile”, — nell’accezione naturalistica e teologica del
termine. Essa è l’esito di un’adesione convinta e fiduciosa ad un “senso”
dell’esistenza umana ricercato ed abbracciato in una prospettiva storica e profetica
di una genitorialità non riconducibile a banali meccanismi biologici, per quanto
compulsivi e aleatori essi siano, ma aperta ad una creatività filiale, in cui l’affetto
reciproco e il rispetto della dignità di ogni “essere umano” contribuiscono alla
realizzazione di una solidarietà, pace e “armonia cosmica”, espressione di quel
“mistero nascosto nei secoli eterni”, che così tanto appassiona non solo i credenti, ma
anche tutte le persone che diversamente si interrogano, — nel rispetto, però, dei valori
propri delle molteplici comunità etniche, culturali, confessionali e civili che
caratterizzano la convivenza umana.
La questione dei diritti dell’embrione umano, in ogni caso, è previa all’apporto
specifico delle diverse tradizioni religiose in merito, e cercare negli eventi umani
dei possibili segni è un modo di credere e di pensare a Dio in termini di “rivelazione di
un senso della storia” e non come al misterioso artigiano o “architetto” che forgia e
regola la natura, secondo una concezione teologica ingenuamente antropomorfica.
In tale prospettiva esistenziale e storica l’embrione umano viene caricato di un
“valore aggiunto” che si traduce in impegno solidale a garantire e promuovere un
dignitoso futuro all’umanità; una motivazione, questa, più che convincente e sufficiente
per una sua responsabile tutela.
4. Il problema dello statuto dell’embrione umano, pertanto, continuerà ancora a
suscitare vivaci e, a volte, intransigenti dibattiti, per ragioni diverse e in parte
risapute, anche se non aprioristicamente inconciliabili. Il passaggio dal biodiritto alla
biopolitica, però, esige che ogni teoria venga messa alla prova dei fatti, ossia,
confrontata con la realtà della pratica scientifica, sociale e sanitaria. A cosa servirebbe
infatti una bella e condivisa definizione dello statuto dell’embrione se non aiutasse a
risolvere i problemi reali?
Nelle osservazioni critiche apportate da Severino al concetto aristotelico di
“potenzialità”, alla sua astrattezza e intrinseca contraddizione logica, e nell’ampio e
articolato quadro problematico che si delinea in seno al controverso dibattito
internazionale, sembra prevalere un’interpretazione epigenetica della natura e
dello sviluppo dell’embrione umano. La vita umana non sarebbe l’esito di un
processo “ontogenetico” (si diviene quello che si è), quanto semmai “epigenetico”
(si è quello che si è diventati). L’essere umano, in altri termini, non è l’attuazione” di
una latente e sostanziale proprietà intrinseca (“potenza passiva”), oppure estrinseca,
indotta o “infusa” (“potenza attiva”).
Lo sviluppo dell’embrione umano, come emerge sempre di più dai risultati della
ricerca biotecnologica e biomedica in corso, avviene e si attua attraverso un graduale e
contestuale processo di organogenesi e conseguente induzione di quell’insieme di
proprietà e funzioni che consentono di distinguere e classificare i diversi organismi
viventi della biosfera in ragione delle loro “sequenze geniche” (genotipo), esito di
mutazioni aleatorie irreversibili e delle caratteristiche specie-specifiche conseguenti
(fenotipo).
La vita in generale, e quella umana in particolare, non è riconducibile ad una dinamica
di “attualizzazione” di “potenzialità” sostanziali, intrinsecamente latenti o
estrinsecamente “infuse”. Non è neppure riducibile alla somma delle proprietà delle
parti e delle relative funzioni indotte dall’organogenesi, ma la risultante di eventi
aleatori (mutazioni geniche) che, nella loro combinazione statistico-probabilistica
indurrebbero la costituzione di complessi e inediti sistemi biologici, esito, quindi, del
“caso” e della “necessità” — per menzionare una celebre espressione di Jacques Monod
(1910-1976) —, intendendo per “caso” l’aleatorietà del processo e per “necessità” la
conseguenza ineludibile.
5. Per ricorrere ad una esemplificazione-semplificazione, l’acqua non è solo una
molecola esito di un determinato e formalmente quantificabile legame chimico tra un
atomo di ossigeno e due atomi di idrogeno (H2O) e neppure la sommatoria delle
funzioni specifiche degli elementi costitutivi, in nessun modo tra loro affini o
comparabili. La proprietà “acqua” è una risultante inedita del sistema molecolare
realizzatosi in seguito alla specifica combinazione e al genere di legame stabilitosi tra
gli elementi costituenti. L’acqua, in tal modo, non è solo, in senso scientificodescrittivo, una molecola, ma anche, in senso simbolico-evocativo, “sorella acqua”,
in ragione del suo essenziale ruolo nell’origine della vita, nella genesi del vivente, nel
dissetare e “dare da bere agli assettati”.
Analogamente, l’uomo non è solo un componente o membro della specie biologica
“Homo sapiens sapiens”, di una popolazione, cioè, specie-specifica, caratterizzata da
determinate frequenze geniche, ma è anche “essere umano”, ossia, capace di
relazionarsi, di interloquire, di autocoscienza e, quindi, “soggetto di diritti” (persona).
Quando si parla di “uomo”, in senso scientifico, si intende sempre la popolazione
zoologica specie-specifica di appartenenza e mai un singolo individuo; in senso
antropologico, invece, si intende ogni singolo e irripetibile “essere umano” capace di
libertà e responsabilità.
6. Al centro della riflessione bioetica, giurisdizionale e politica sulla natura e lo “statuto”
dell’embrione umano, pertanto, soggiace l’interrogativo di fondo su quando e come
esso “è già” o “può divenire” un “essere umano”: fin dal momento del concepimento
(ontogenesi) oppure più tardi, quale compimento di uno sviluppo condizionato e
circostanziale (epigenesi)? Nel primo caso, la soppressione dell’embrione sarebbe
omicidio; nel secondo, sarebbe consentita entro certi limiti e a determinate condizioni,
in relazione anche ad una possibile valutazione dell’etica delle circostanze e delle
conseguenze, che può variare in relazione all’origine stessa degli embrioni: “in utero” o
“in vitro”.
Nel precario momento culturale e politico che stiamo vivendo — benché
coesistano interpretazioni assertivamente, anche se non aprioristicamente, inconciliabili
— è forse meglio e più prudente non “prendere posizione”, ma privilegiare
l’interrogazione, la riflessione e la meditazione, rispetto alla “mobilitazione”, per quanto
motivata e appassionata essa sia, nella speranza che possa contribuire alla ricerca di
un metodo condiviso per gestire il delicato passaggio dalla bioetica, al biodiritto e alla
biopolitica in una società plurale. Ogni “movimento” è un “turbamento”, spesso a
discapito del “bene comune”, tra cui dobbiamo annoverare anche i nostri embrioni.
Al seguente link è possibile consultare alcune pubblicazioni in merito e ambito di p. Ennio Brovedani sj:
https://www.aggiornamentisociali.it/autori/ennio-brovedani.aspx |